Qui non entreremo nel merito delle politiche legate all’immigrazione. Piuttosto desideriamo ricordare in modo sintetico e, speriamo, in maniera comunque esaustiva, i fattori che spingono tantissimi africani ad abbandonare la loro terra d’origine, per rischiare la vita nelle acque del Mediterraneo, giungendo poi in centri di “accoglienza”, spesso ghettizzati, isolati dal resto della società.

Perché donne, bambini, uomini fuggono dall’Africa? Per rispondere prendiamo in considerazione i conflitti e le attuali crisi interne in varie nazioni africane.

Incominciamo dal Sudan e dal Sud Sudan

 

Sino al 2011 formavano un’unica entità nazionale, poi divisa dalla secessione dell’area meridionale. Il vecchio Sudan, sin dalla sua indipendenza (avvenuta nel 1956) dal Regno Unito,  si presentava diviso tra nord e sud, tanto che scoppiò un conflitto interno durato ben 17 anni. Da quella prima destabilizzazione, la zona meridionale del Sudan ottenne lo status di regione autonoma, ma le controversie politico-territoriali erano talmente profonde che nel 1983, l’allora governo di Khartoum, revocò alla zona del Sud lo status di autonomia.

Le rivalità tra l’area settentrionale del Sudan e quella meridionale si acuirono, sia per motivazioni di natura etnico-religiosa, sia – soprattutto – per fattori collegati al controllo di specifiche terre e alla distribuzione dei proventi del petrolio. Le continue tensioni sfociarono in una seconda guerra civile, dal 1983 al 2005, cui seguirono ancora scontri sino a giungere, appunto, alla secessione del Sud Sudan nel 2011. Ma la storia di queste due nazioni rimane scandita da instabilità. Il Sudan è ripiombato in una serie di scontri nel corso del mese di aprile 2023, tra le forze capeggiate dal generale Mohamed Hamdane Daglo, detto “Hemedti”, e l’esercito, guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhane, che di fatto guida il paese dopo il colpo di stato del 25 ottobre 2021.

Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Kenya e Uganda sono i principali Stati che accolgono i  rifugiati provenienti dal Sud Sudan. Nonostante l’instabilità, il Sudan da decenni ha accolto rifugiati provenienti dall’Eritrea, dal Ciad, dalla Siria, dallo Yemen e dal vicino Sud Sudan.

Una situazione estremamente complessa che ha spinto papa Francesco a fare tappa proprio in Sud Sudan nel suo pellegrinaggio ecumenico in terra africana. Abbiamo documentato qui il viaggio apostolico del Pontefice.

La lunga crisi della Repubblica Democratica del Congo

 

Un’altra nazione da decenni tormentata è la Repubblica Democratica del Congo. La sua storia è scandita da un feroce colonialismo, da crisi, attentati, assassini (su tutti, ricordiamo quello di Patrice Lumumba) e da guerre interne che nascondevano e che nascondono ancora oggi gli enormi interessi di varie potenze straniere non africane.

Le aree della RDC più tormentate, confinanti con il Ruanda, il Burundi e l’Uganda, sono il Nord-Kivu e l’Ituri, dove agiscono gruppi armati che formano una vasta e talvolta nebulosa galassia di forze militari e paramilitari.

A seminare instabilità e terrore vi sono i ribelli (tutsi) del Movimento M23, accusati di essere manovrati e sostenuti dal vicino Ruanda. Un movimento che trae origine dagli scontri fra Hutu e Tutsi e che originò il sanguinoso genocidio ruandese. Vi sono poi le Forze democratiche di liberazione del Ruanda (FDLR) accusate di aver diffuso un atteggiamento ostile verso i Tutsi. Altri gruppi sono: Codeco, acronimo di Cooperativa per lo sviluppo del Congo, ma in questo caso il concetto di sviluppo rimane solo di facciata, essendo formato da un insieme di gruppi armati legati alla comunità Lendu. Vi è poi l’ADF (sigla che sta per Forze democratiche alleate), altro gruppo violento di origine ugandese legato allo Stato Islamico, quindi in conflitto con l’esercito sia congolese, che ugandese. Tanti gruppi armati che si contendono il controllo delle enormi ricchezze del Nord-Kivu e dell’Ituri, come l’oro, il coltan e lo stagno.

I rifugiati e i richiedenti asilo congolesi presenti in Africa sono più di un milione; la maggioranza si trova in Uganda (479.400). Altri Stati di accoglienza sono Burundi, Tanzania, Ruanda, Zambia e Angola.

L’Etiopia, un’altra terra tormentata.

A essere maggiormente colpita in questi anni è la popolazione tigrina. Come ha messo in luce un rapporto di Amnesty International e di Human Rights Watch, le forze di sicurezza regionali dell’Amhara e le autorità civili della Zona occidentale del Tigray hanno commesso, a partire dal novembre 2020, violenze contro la popolazione tigrina definibili crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Il conflitto in Tigrai durato due anni (2020-2022) lascia profonde, gravi conseguenze. Centinai le vittime e 2 milioni di sfollati interni (secondo fonti Reuters).

Peggiorati sono anche i contesti sociali e politici in Mali, Niger, Burkina Faso, Repubblica Centrafricana.

La recrudescenza militare e politica in Mali, che ha portato nel marzo 2012 a un colpo di Stato, a cui hanno fatto seguito una guerra civile, e poi l’intervento francese con la cosiddetta operazione Serval, ha avuto un effetto domino sugli Stati vicini.  Il Niger è in balia di gruppi jihadisti, come testimoniano i numerosi sequestri di civili, stranieri e missionari. Ricordiamo su tutti il rapimento di padre Gigi Maccalli, durato venticinque mesi. Esperienza drammatica – raccontata nel suo libro “Catene di libertà” (EMI) – da lui affrontata con coraggio e fede.

 

 

Nel deserto della prigionia ho visto che l’essenziale nei conflitti è il dialogo e l’incontro, mai lo scontro. Le guerre non risolvono mai i conflitti e producono sempre tante vittime innocenti. Sono stato risucchiato dentro un conflitto armato come ostaggio e ho visto da vicino questo mondo oscuro. Oggi sono libero ed è per me una responsabilità gridare il desiderio di pace di tanti uomini, donne e bambini a cui è stata sequestrata la pace. Essere libero mi impegna ad offrire a tutti una parola che generi pace e vita.
Padre Gigi Maccalli

 

Da queste e da altre drammatiche situazioni fuggono donne, bambini e uomini.

Nel prossimo Articolo parleremo del caso Libia, delle speranze disattese di quelle rivoluzioni etichettate con l’appellativo di “Primavera araba” e dei parallelismi tra politiche sui flussi migratori e apartheid sudafricano.

 

Silvia C. Turrin