Tra il 27 e il 30 aprile 1994, in un clima di euforia, in Sudafrica si svolsero, in modo pacifico, le prime elezioni multirazziali e democratiche, basate sul principio “una persona, un voto”.

Un evento per molti impensabile dopo secoli di oppressione, di colonialismo e razzismo. Tale momento storico vide un’imponente partecipazione della popolazione: si stima che il diritto di voto l’abbia esercitato l’87% dell’elettorato attivo. Un coinvolgimento che diede vita a lunghe e colorate file di elettori, molti dei quali, per la prima volta nella loro vita, liberamente sperimentavano il diritto di voto.

In quei giorni stava germogliando la Rainbow Nation. Dopo qualche settimana dal voto, il 10 maggio 1994, l’interesse della comunità internazionale si concentrava sull’ufficiale investitura di Rolihlahla (nome xhosa di Nelson Mandela, simbolo e guida politica del Paese) in qualità di primo presidente della “nazione arcobaleno”. Al suo fianco prestarono giuramento anche Thabo Mbeki come primo vice presidente e Frederik Willem de Klerk, come secondo vicepresidente.

Il lungo cammino verso la libertà” si era concluso attraverso l’annullamento della legislazione discriminatoria, la destrutturazione della separazione urbano-territoriale e l’eliminazione di tutte quelle barriere sociali, culturali, economiche e politiche edificate durante il regime di apartheid. Tuttavia, gli eventi accaduti nel 1994, non devono far dimenticare che il percorso per ridare la libertà agli oppressi è stato irto di ostacoli, per superare i quali, migliaia di persone hanno sacrificato la propria esistenza.

La democrazia che la società sudafricana conosce e sperimenta oggi – pur tra molte contraddizioni, come accade in altre nazioni, anche europee – è stata il frutto della protesta e delle lotte portate avanti, nei decenni precedenti, da uomini e donne comuni, studenti, attivisti per i diritti civili e umani, da artisti ed esponenti dell’intellighenzia, e da figure politiche dotate della consapevolezza di poter modificare lo status quo edificato con tanta tenacia da un’élite auto-definitasi popolo eletto.

Di seguito, sintetizziamo alcuni dei fatti storici più importanti che hanno avuto un impatto cruciale per la fine dell’apartheid in Sudafrica.

L’eccidio di Sharpeville

Il massacro di Sharpeville, avvenne il 21 marzo 1960. In quella data, i dirigenti del PAC, organizzazione politica sorta nel 1959 da una scissione interna all’ANC, decisero di intraprendere una campagna di protesta, non-violenta, contro le pass law. Quel giorno, 20mila persone si mossero verso la stazione di polizia di Sharpeville protestando pacificamente contro le pass law. Sebbene i manifestanti fossero disarmati, il contingente di polizia, numericamente inferiore rispetto ad essi, si fece prendere dal panico e iniziò a sparare uccidendo 69 persone e ferendone molte altre. Sobukwe, leader del PAC fu arrestato insieme ad altri dirigenti. In seguito all’eccidio, l’8 aprile l’ANC e il PAC furono dichiarate organizzazioni illegali tramite l’Unlawful (Criminal) Organizations Act (N.34, 1960) e, da quel momento in poi, entrambe dovettero agire in condizioni di clandestinità. Tra il 1961 e il 1963, le due organizzazioni abbandonarono la strategia non-violenta, formando rispettive ali armate e intraprendendo azioni di sabotaggio. A seguito di diversi attentati, i leader storici dell’ANC e del PAC furono arrestati, processati (processo di Rivonia) e condannati all’ergastolo.


APPROFONDIMENTO – Il sistema delle pass-law

La prima forma di pass (lasciapassare) risale al 1760 e fu applicata agli schiavi del Capo. Nel 1872, l’utilizzo del pass fu ufficializzato presso la città di Kimberley, dove l’Ufficio di reclutamento disponeva che i lavoratori africani ricevessero un lasciapassare che permetteva loro di cercare un ingaggio, con una durata non inferiore a tre mesi. Con l’istituzione dell’apartheid, i pass furono definiti reference book e dovevano indicare, per ogni africano di sesso maschile, il permesso di lavorare, circolare e/o risiedere nel cosiddetto Sudafrica bianco.

Le pass law, che rappresentarono il nucleo centrale della politica del controllo dei flussi, furono varate per controllare i movimenti degli africani e la loro presenza nel mercato del lavoro. L’obbligo dei lasciapassare fu esteso anche alle donne africane, nonostante queste ultime avessero condotto un’imponente campagna di mobilitazione anti-pass.


Il processo di Rivonia

Il processo di Rivonia è un chiaro esempio di come il regime razzista di Pretoria utilizzasse il sistema giudiziario in modo strumentale, in funzione dell’apartheid. Le corti, con i loro verdetti iniqui, servivano per eliminare, almeno politicamente, gli oppositori del regime. Il processo di Rivonia fu così chiamato, in quanto molti degli imputati erano soliti incontrarsi segretamente per dibattere di piani strategici presso Liliesleaf Farm, fattoria all’epoca situata a Rivonia, alla periferia nord di Johannesburg.

Oltre a Nelson Mandela, gli imputati al processo furono Walter Sisulu, Govan Mbeki, Raymond Mhlaba, Ahmed Mohamed Kathrada, Dennis Goldberg, Lionel Bernstein, e, come coimputati, figuravano Elias Motsoaledi e Andrew Mlangeni.

La prima udienza del processo iniziò nell’ottobre del ’63. I capi di accusa erano: sabotaggio, cospirazione per il rovesciamento violento delle istituzioni e complicità nel progetto d’invasione del Sudafrica da parte di truppe straniere. Nel corso dei dibattimenti, Mandela utilizzò l’aula giudiziaria come una sorta di palcoscenico dal quale diffondere, all’opinione pubblica sudafricana e internazionale, l’oppressione vissuta da neri, indiani e coloured.

Il processo terminò il 12 giugno 1964, con la sentenza di colpevolezza per N. Mandela, W. Sisulu, G. Mbeki, D. Goldberg, A. Kathrada, A. Mlangeni, R. Mhlaba ed E. Motsoaledi.

La conclusione del processo di Rivonia significò anche la fine, sebbene temporanea, di un periodo storico per il Sudafrica caratterizzato da numerose proteste, campagne di disobbedienza civile e di lotta armata per ottenere la libertà e l’emancipazione degli oppressi.

La nuova fase vide i principali leader dell’ANC e del PAC in carcere o soggetti alla misura giudiziaria e psicologica della messa al bando; molti decisero un esilio forzato e altri ancora raggiunsero i centri di addestramento militare presenti in alcuni Stati africani.

Il ruolo del Black Consciousness Movement

Stephen Biko

L’effettivo sviluppo del BCM è rintracciabile nel 1971, quando venne elaborato ufficialmente il concetto di Consapevolezza Nera, definito come “un’attitudine della mente, uno stile di vita”. Tra i leader del movimento, Stephen Biko, il quale diede una precisa descrizione di Black Consciousness, in cui sottolineava la stretta correlazione fra: la consapevolezza di sé e il programma di emancipazione della popolazione nera.

Il primo punto prevedeva la realizzazione di un inward-looking process, tramite il quale raggiungere la Consapevolezza Nera, ovvero la comprensione da parte dei black della necessità di creare una forte unità di gruppo diretta a spezzare le catene che mantenevano il loro status di asservimento. Questa fase iniziale, di carattere psicologico e culturale, rappresentava la necessaria pre-condizione del progetto politico di liberazione fisica e politica degli oppressi.

Il BCM promosse i Black Community Programmes, rivolti alla comunità nera. Il loro principale fine consisteva nella genesi di un processo di autostima tra i neri sudafricani. Ciò implicava che i vari progetti fossero realizzati, gestiti e valutati dai neri stessi, per infondere loro la consapevolezza di poter effettivamente agire in modo autonomo per migliorare la propria esistenza.

Gli scioperi dei lavoratori di Durban

La crisi petrolifera che investì i mercati internazionali nel 1973 ebbe ripercussioni anche entro i confini del Sudafrica. Oltre all’aumento del prezzo del greggio, l’economia sudafricana conobbe, già all’inizio degli anni ’70, un progressivo rialzo dei prezzi dei prodotti di prima necessità.

La comunità africana, discriminata, sfruttata e non soggetta ad alcun tipo di beneficio e protezione derivante dal welfare state, fu la componente sociale che risentì maggiormente della crisi dei mercati. Infatti, nonostante il Sudafrica conobbe un vero e proprio boom economico fra il 1964 e il 1972, la classe lavoratrice nera, in quegli anni, non ottenne alcun miglioramento nei propri livelli salariali. L’aumento del costo della vita causato dalla crisi petrolifera del ’73, aggravò quindi le già precarie condizioni di vita. Il malcontento, attorno all’area industriale Durban-Pinetown-Hammarsdale, si tradusse in una serie di scioperi spontanei organizzati da lavoratori in prevalenza africani, e, in minima parte, coloured e asiatici.

Nella zona di Durban, erano soprattutto presenti aziende tessili, i cui dipendenti ricevevano un salario inferiore alla soglia minima di povertà, tanto che nel 1970, il Natal Univerisity Social Research Department aveva calcolato che l’85% delle famiglie africane, presenti nel complesso industriale nominato, vivevano in una condizione di indigenza. La Coronation Brick e la Tile Company furono le prime industrie a conoscere la protesta operaia, iniziata il 9 gennaio 1973: circa 2000 lavoratori scioperarono, chiedendo un aumento del loro stipendio pari a 11,03 Rands (da 8,97 R a 20 R). Le proteste ebbero risultati positivi, infatti gli operai ottennero un incremento salariale, sebbene non nella percentuale da loro richiesta. Questo successo, seppur relativo, incentivò altri lavoratori, nella provincia del Natal, ma anche nel Transvaal e nell’Eastern Cape, a battersi per i propri diritti sindacali. Si stima che durante i primi tre mesi del ’73, 160 scioperi coinvolsero circa 61mila operai.

La rivolta di Soweto

Nel mese di giugno del 1976, migliaia di giovani africani furono i protagonisti di uno degli eventi più drammatici avvenuti, negli anni ’70, in Sudafrica. Luogo dell’epicentro fu Soweto, township di Johannesburg, dove il 16 giugno, venne indetta una manifestazione, presso l’Orlando Stadium della città, per protestare contro l’introduzione dell’afrikaans come lingua veicolare di formazione scolastica. Già all’inizio del ’76, vennero avviate iniziative dirette a opporsi contro l’utilizzo dell’idioma simboleggiante la cultura dell’oppressore. Infatti, in numerose classi di Soweto, gli studenti decisero di boicottare le lezioni impartite in afrikaans.

L’imponente manifestazione anti-afrikaans venne quindi organizzata il 16 giugno 1976. Nel giorno fissato, migliaia di studenti sfilarono pacificamente per le vie della township, cantando inni di libertà e diffondendo slogan, quali “Down with Afrikaans” e “Bantu Education-to hell with it”. Quando i manifestanti si trovarono presso Vilakazi Street, ubicata vicino all’Orlando West school, un contingente di polizia lanciò gas lacrimogeni per dissuadere i giovani a proseguire. Questi, anziché arrestarsi, risposero lanciando pietre e la polizia, senza esitare, reagì sparando alla folla disarmata. Tra le prime vittime, il tredicenne Zolile Hector Pieterson.

Per approfondire la rivolta di Soweto leggi l’Articolo sul nostro sito.

La promulgazione dell’Internal Security Act (1976) e il ruolo dell’Umkhonto we Sizwe

A seguito delle manifestazioni anti-apartheid, il governo sudafricano si attuò promulgò l’Internal Security Act, il quale consentiva al Ministro di Giustizia di ordinare la carcerazione preventiva, senza deferimento ai tribunali, di qualsiasi persona, a tempo indeterminato, per motivi di sicurezza. Le detenzioni, dopo la rivolta di Soweto, aumentarono: si stima che ve ne furono 434 nel periodo compreso fra giugno e novembre del ’76.

L’Umkhonto we Sizwe (MK) era l’ala militare dell’ANC, creato a seguito della messa al bando dell’organizzazione politica.  Questo movimento di guerriglia armata poteva contare su campi di addestramento ubicati in diversi stati africani, quali Zambia, Tanzania e Angola. L’Umkhonto we Sizwe, fra l’ottobre del 1976 e il marzo del 1978, intraprese 112 attacchi entro i confini del Sudafrica, con l’obiettivo di alimentare sia la resistenza interna, sia il prestigio dell’ANC.

La lungimiranza di Nelson Mandela

Nelson Mandela dopo aver agito in clandestinità, il 5 agosto 1962, fu arrestato e imprigionato. Nel 1964, insieme ai suoi compagni, fu condannato all’ergastolo e incarcerato sull’isola-prigione di Robben Island, dove è rimasto per 18 dei suoi 27 anni di detenzione. 18 anni scanditi da soprusi e lavori forzati. A Nelson Mandela era consentita solo una visita e una lettera ogni 6 mesi.

Nel 1982, venne trasferito alla prigione di Pollsmoor. Durante gli anni ’80 la sua popolarità crebbe a livello internazionale, tanto da far nascere una campagna a favore della sua liberazione, che finalmente avvenne l’11 febbraio 1990.

Mandela è riuscito a resistere alla discriminazione razziale, alla lunga prigionia, ai tentavi di farlo crollare psicologicamente colpendo gli affetti più cari, all’isolamento in carcere (quando era in isolamento poteva nutrirsi solo con l’acqua di riso, cioè con l’acqua con cui veniva bollito il riso! questa era la “democrazia” dei bianchi…).

Ma alla fine, i suoi principi di libertà, la sua incorruttibilità, la sua etica morale hanno prevalso sull’odio e sul razzismo..

Mandela rimane una figura amatissima tra quanti credono nei veri valori di fratellanza, dignità, rispetto e libertà.

Silvia C. Turrin