La testa di una donna spuntava dall’acqua. Qualche lamento. Il soccorritore ha nuotato verso di lei e l’ha afferrata da dietro. La donna gli ha stretto il braccio talmente forte che lui ha creduto di non farcela.

Finiremo entrambi in fondo al mare, ha pensato. La donna ha voltato la testa e lo ha guardato con occhi terrorizzati.

Occhi spalancati

È arrivato un altro soccorritore. L’hanno presa in molti, chi per le ascelle, chi per la maglietta, per sollevarla a bordo. Lei guardava nel vuoto, gli occhi spalancati. Si chiama Josefa, ha quarant’anni, viene dal Camerun. Vicino a lei, tra le taniche, i vestiti abbandonati, i resti di un gommone, i soccorritori hanno trovato due cadaveri.

C’era una donna a pancia in giù su una tavola. Doveva essere morta molte ore prima dell’arrivo dei soccorritori. Invece il bambino che galleggiava nudo vicino a lei non era morto da tanto quando il ragazzo spagnolo con l’uniforme gialla e rossa l’ha sollevato dall’acqua con un gesto dolce, mettendogli una mano sotto alla nuca e un’altra sotto alla schiena per portarlo su un gommone.

Una volta tornati sulla nave i soccorritori mi hanno confessato di non aver mai visto una scena simile. Sul ponte della nave, con un filo di voce, Josefa racconta di essere stata picchiata e abbandonata dai guardacoste libici, che hanno intercettato il gommone partito dalla Libia. Hanno riportato indietro un centinaio di persone, tra cui sua sorella.

È il luglio del 2018, i porti italiani sono chiusi alle navi delle ong. Sono l’unica giornalista italiana a bordo della nave umanitaria e sto ancora cercando di ricostruire cosa è successo prima dell’arrivo dei soccorritori, mentre mi accorgo che sui social network sta montando una strana polemica.

Al centro, le unghie di Josefa

Viene condivisa una foto di Josefa sdraiata su una barella arancione con le mani conserte sulla pancia e le unghie laccate di rosso. Per gli account, che sembrano legati alla galassia sovranista, lo smalto sulle unghie dimostrerebbe che Josefa è «un’attrice» e non una «vera» migrante, che non c’è stato nessun naufragio, perché lo smalto è «intatto dopo quarantotto ore in acqua» e quindi si sarebbe trattato di una «messa in scena».

Decine di utenti condividono questa notizia, che diventa trending topic sui social network: in poco tempo si smette di parlare della storia drammatica della donna abbandonata dai libici in mare, miracolosamente sopravvissuta. E tutta l’attenzione si sposta sulle sue unghie laccate di rosso e sulle teorie del complotto che fioriscono intorno a questo particolare. Sono contattata sui social network dai lettori che mi chiedono di spiegare cosa sta succedendo e dagli «haters» che mi accusano di essere complice dei trafficanti.

A nessuno viene in mente di confrontare la foto delle unghie rosse con quelle scattate al momento del salvataggio. L’immagine condivisa sui social dagli identitari era stata scattata poco prima dello sbarco di Josefa a Palma di Maiorca, ovvero quattro giorni dopo il soccorso in mare. Nella foto Josefa indossa una maglia grigia. Al momento del salvataggio indossava una maglietta azzurra. Le unghie le sono state laccate dalle soccorritrici durante la traversata.

La tirannia delle fake news

Ma le teorie del complotto non si fermano: si cominciano a sollevare dubbi sulle operazioni di soccorso. La tecnica è sempre la stessa: un utente social lancia una fake news, è ripreso subito da una trentina di account tra cui molti bot (account automatici), poi la notizia si espande, arriva anche a qualche commentatore e influencer, che fa sua la tesi e la ripete nel corso di qualche dibattito televisivo.

L’idea di fondo, la teoria del complotto madre, è che qualcuno, un grande burattinaio, abbia deciso di guadagnare dall’arrivo di migranti in Europa, o addirittura che ci sia un piano per favorire l’immigrazione incontrollata verso i Paesi occidentali. L’obiettivo sarebbe abbassare gli standard del lavoro e dei salari o addirittura ripopolare il continente in piena crisi demografica (sostituzione etnica).

Tutto è presentato come un dossier di controinformazione, stilato da semplici cittadini, che vogliono smascherare le bugie dei mezzi d’informazione mainstream.

«Buonisti», «antipatrioti», «immigrazionisti», così sono etichettati le organizzazioni e i singoli individui che prendono parte al dibattito difendendo le Ong o descrivendo il fenomeno migratorio come strutturale.

Odio e informazione

Da quel momento comincio a studiare questo meccanismo più nel dettaglio. Lo schema di diffusione di questo tipo di contenuti sembra riconducibile a un fenomeno più vasto che ha a che fare con il meccanismo della formazione del consenso nell’epoca dei social network. Meccanismi simili sono osservabili in tutto il mondo, dagli Stati Uniti alle Filippine passando per la Russia. Tra le altre ragioni della diffusione delle fake news online c’è la sfiducia dei cittadini nei confronti dei mezzi d’informazione tradizionali, ma anche il sistema di funzionamento stesso dei social network che si finanziano con la pubblicità e hanno quindi tutto l’interesse a tenere gli utenti il più a lungo possibile sulle loro piattaforme.

Questo avviene ancora di più per i discorsi di odio che sono indirizzati in particolare agli stranieri, alle donne e alle minoranze religiose. In questo modo negli ultimi anni si è diffusa una percezione del fenomeno migratorio lontana dalla realtà, un meccanismo che non ci possiamo più permettere di ignorare.

Annalisa Camilli,
Autrice del libro “La legge del mare” (Rizzoli)
newsletter “Futura”, Corriere della Sera

Illustrazione di Benedetta C. Vialli
Foto: Open Arms, GdF, il manifesto.it, repubblica.it

Guarda su youtube l’intervista alla giornalista Annalisa Camilla su La7