La Pastorale Giovanile del Decanato Centro Storico di Milano ha organizzato l’evento “Oltre il conflitto: voci di riconciliazione e speranza” . In questo Articolo, diffuso dal sito web del Festival della Missione, si raccontano due esperienze di vita tra loro molto diverse, dalle quali però emerge la stessa forza, quella della speranza.
Raccontare il proprio dolore, donando le proprie ferite e il percorso che ha portato a ricucirle a chi ci ascolta. Uno sforzo che diventa ancora più complesso quando lo si ripete molte volte.
Lo hanno fatto Jean Paul Habimana, sopravvissuto al genocidio in Ruanda e insegnante di religione, e Franco Bonisoli, ex membro delle Brigate Rosse, impegnato in percorsi di giustizia riparativa, nell’evento “Oltre il conflitto: voci di riconciliazione e speranza” organizzato dalla Pastorale Giovanile del Decanato Centro Storico di Milano. È stato l’intreccio di due racconti diversissimi, eppure complementari, uniti dalla convinzione che esiste una strada diversa.
Prende parola Habimana: «Non so come si parla di speranza ai giovani», suscitando un sorriso nel pubblico, composto in gran parte da studenti liceali. Poi aggiunge:
«Penso che la cosa che ci porta a scontrarci è dimenticare la nostra storia. E non interessarci alle storie degli altri significa non capire che il pericolo che vive oggi il nostro vicino di casa, in qualsiasi parte del mondo, un giorno potrebbe arrivare anche da noi. Ed è quello che è successo in Ruanda».
Inizia così la testimonianza di Habinama, condividendo i suoi ricordi di quel 1994. Cresciuto in una famiglia cattolica di etnia tutsi, all’epoca era solo un bambino, aveva dieci anni: «Andare a scuola dopo le elementari era molto difficile per noi» racconta. «Mia sorella ci è riuscita solo grazie a delle conoscenze di mio padre. Per farla studiare, i miei genitori hanno fatto enormi sacrifici, ma ci sentivamo fortunati: almeno una di noi sette fratelli poteva ricevere un’istruzione superiore».
Il Ruanda era già devastato da oltre tre anni di guerra civile. La sera del 6 aprile, un razzo colpisce l’aereo in cui viaggiavano Juvénal Habyarimana e Cyprien Ntaryamira, i presidenti di Ruanda e Burundi, entrambi di etnia hutu. Poche ore dopo ebbero inizio massacri indiscriminati da parte della maggioranza della popolazione hutu nei confronti della minoranza dei tutsi, ritenuta responsabile dell’attentato. «Abbiamo iniziato ad avere paura, ma ancora non sapevamo esattamente cosa stesse succedendo», ricorda Habimana. «Il giorno dopo ci dissero che il nostro negozio e la fattoria di mio padre erano stati distrutti: in quel momento abbiamo capito che le cose sarebbero cambiate radicalmente».
La violenza esplode. Habimana e la sua famiglia fuggono tra spari e grida.
«Nel caos mi ritrovai in parrocchia con mio fratello di sette anni, ma avevo perso il resto della mia famiglia».
Rimangono nascosti lì per giorni, senza cibo.
«Il 29 aprile, nel pomeriggio, sentimmo colpi di arma da fuoco più intensi del solito. Ogni giorno arrivavano gli assassini e leggevano i nomi di chi sarebbe stato ucciso, quel giorno però era diverso».
Habimana e il fratello riescono a fuggire e trovano rifugio presso una vicina di casa. Quando si viene a sapere della loro presenza, il padre della famiglia scava un rifugio sotterraneo nella piantagione di banane per proteggerli. Dopo qualche settimana, Habimana riesce a riunirsi con la madre, anch’essa nascosta da una famiglia. Gli viene data una scelta: restare o andare in un campo profughi. Sceglie di partire, da solo. «Più tardi il resto della mia famiglia mi ha raggiunto, tranne mio padre, che non è mai arrivato» racconta.
A luglio, quando i tutsi riconquistano il potere, vengono liberati. Ma il paese è devastato, le famiglie spezzate.
«Il Ruanda ha cercato di ricostruire e riconciliarsi, ma non era facile. Convivere di nuovo era difficile, si viveva nella paura costante». Habimana prosegue gli studi in seminario minore, dove partecipa a incontri in cui le persone condividono le proprie storie.
«Solo allora ho sentito per la prima volta anche la sofferenza degli hutu e ho capito che il genocidio non aveva colpito solo me».
È un momento, seppur diverso, che si ritrova anche nella storia di Franco Bonisoli, che si racconta seduto accanto Habimana.
«Ho fatto parte delle Brigate Rosse: ho scelto quella strada da giovane, in un periodo storico in cui credevamo di poter cambiare il mondo» spiega.
«Chi usa la violenza pensa che la propria sia giusta e quella degli altri sbagliata. Questa convinzione ha segnato la mia scelta di diventare militante, portandomi prima ad agire contro le cose e poi contro le persone».
Seguono gli anni del carcere: quattro condanne all’ergastolo e 105 anni nei processi minori.
«A un certo punto entrai in crisi e iniziai a mettere tutto in discussione. Ma ero in carcere e non vedevo una prospettiva».
Insieme ad Alberto Franceschini decide di iniziare uno sciopero della fame, finché il cappellano del carcere prende posizione contro il regime penitenziario.
La notizia diventa pubblica e la politica interviene. Il carcere speciale, regolato dall’articolo 90 della legge n. 450 del 1977, viene riformato dalla legge Gozzini del 1986, che introduce il 41-bis. «Da quel momento la mia vita è cambiata: le pene rimanevano, il futuro era incerto, ma si iniziava a intravedere una possibilità di risalita».
Nel 1987 viene introdotta una norma per chi si dissociava dalla lotta armata, prevedendo riduzioni di pena.
«Dopo 22 anni, sono potuto uscire. Il nostro Paese, accusato di avere un regime carcerario simile alla tortura, in pochi anni aveva adottato quello che era uno dei sistemi più moderni d’Europa».
Ma rimaneva il tarlo morale per la sofferenza causata.
«Ho desiderato la possibilità di avviare un dialogo di comprensione umana con le vittime».
Con l’aiuto di tre mediatori, il padre gesuita Guido Bertagna, il criminologo Adolfo Ceretti e la giurista Claudia Mazzucato, si avvia un confronto tra ex militanti e vittime della lotta armata.
«Lì ho percepito che dall’altra riuscivano a sentire anche quello che era un mio dolore, anche se cercavo di non manifestarlo. È stato un percorso lungo e difficile: ma abbiamo creato degli incontri alla pari. Ho sentito da parte di queste persone – che avevano tutto il diritto di essere arrabbiate, di avere rancore nei nostri confronti – il massimo riconoscimento per il percorso fatto».
In sottofondo risuona quella domanda inziale: «Come si parla di speranza ai giovani?». Lo si è fatto in questo modo, nella convinzione – ha sottolineato Bonisoli – che «se non c’è limite al male, ci può non essere limite al bene».
Fonte: Festival della Missione