Mentre scriviamo, l’Unione Africana ha sospeso il Niger da tutte le istituzioni e attività “fino all’effettivo ripristino dell’ordine costituzionale” dopo il colpo di stato avvenuto nel mese scorso. Mentre la CEDAO (la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale) – che aveva dato il suo assenso al dispiegamento di una forza militare ai confini, in attesa dell’evoluzione o involuzione in Niger – ha respinto il progetto di transizione di tre anni lanciata dal generale Abdourahamane Tiani. Una via diplomatica alla crisi del Niger appare ancora lontana, sebbene è chiaro che l’ipotesi di un intervento armato inquieta vari esponenti politici, non solo africani.

La crisi in questo angolo di Sahel avvolto dalla sabbia era iniziata il 26 luglio scorso, con le prime fasi di un colpo di Stato, poi attuato pienamente nei giorni successivi. Dopo il Mali, il Ciad, la Guinea e il Burkina Faso, anche il Niger è entrato in quel gruppo di nazioni africane anti-occidentali e soprattutto anti-francesi.

In realtà, si dovrebbe parlare non tanto di un atteggiamento anti-francese, piuttosto di critiche alla presenza e al modus operandi dei francesi in ambito militare, diplomatico ed economico. Già nel 2022, in Niger, si erano verificate manifestazioni in cui si chiedeva il ritiro dei soldati francesi presenti nel Paese a seguito dell’operazione Barkhane.

La crisi che vive oggi il Niger è frutto di una serie di fattori, connessi alla nuova complessità e frammentarietà delle logiche geopolitiche internazionali.

Nonostante l’ultimatum dell’Unione africana – che chiede il ripristino dell’autorità costituzionale e la liberazione del presidente Bazoum – e nonostante le sanzioni economiche, il gruppo dei golpisti sembra non temere un possibile conflitto.

Questa nuova crisi nel Sahel ha innescato, anche in Occidente, e in particolare in Francia, un dibattito interno sulla gestione della sicurezza proprio in questo territorio in gran parte desertico, ma ricco di risorse minerarie preziose. L’ex potenza coloniale, che un tempo controllava molti paesi dell’Africa occidentale, sembra abbia lasciato dietro di sé solo un mare di sabbia e di odio.

È stato rilevato, che dal 1990, oltre la metà dei colpi di Stato avvenuti nell’Africa sub-sahariana si sono verificati proprio in quei paesi collegati all’orbita francofona.

È possibile – si sono domandati alcuni esponenti politici e analisti francesi – che le recenti operazioni militari della Francia nel continente africano e in particolare nel Sahel, abbiano creato l’humus ideologico, geopolitico, economico e culturale che ha poi accentuato la profonda instabilità e il diffuso malcontento verso la patria fondata – almeno sulla carta – sui principi quali Liberté, Égalité, Fraternité?

Una parziale risposta a tale complesso quesito l’abbiamo trovata paradossalmente nelle parole di un illustre e controverso francese, deceduto nel 2019, Jacques Chirac. Il XXII presidente della Repubblica francese aveva dichiarato:

“Dimentichiamo solo una cosa. È che gran parte del denaro che abbiamo nei nostri portafogli viene proprio dallo sfruttamento, per secoli, dell’Africa […] Quindi occorre avere un po’ di buon senso, di giustizia, per restituire agli africani quello che gli è stato tolto. Tanto più che è necessario, se si vogliono evitare le peggiori contestazioni o difficoltà, con le conseguenze politiche che ciò comporta nel prossimo futuro”.

Lette oggi, a seguito di ciò che è avvenuto in Mali, Ciad, Guinea, Burkina Faso e adesso in Niger, queste parole risuonano come un avvertimento che già aleggiava svariati anni fa.

Fallimento o successo degli interventi francesi nel Sahel

Come per molti eventi storici, anche gli interventi militari francesi nel Sahel – come l’operazione Barkhane – possono essere considerati un fallimento o un successo: dipende dall’angolazione – e dalla nazione – da cui si osservano e analizzano.

Emmanuel Macron, in una recente intervista a Le Point, ha definito gli interventi militari della Francia in questa zona dell’Africa operazioni di successo. Secondo il capo dell’Eliseo, malgrado il peggioramento delle relazioni con vari Paesi africani, è stata saggia la scelta della Francia di impegnarsi nella lotta contro il terrorismo nel Sahel.

“Se non ci fossimo impegnati con le operazioni Serval e poi Barkhane, non ci sarebbero più, senza dubbio, il Mali e il Burkina Faso, e non sarei tanto sicuro che esisterebbe ancora il Niger”, ha puntualizzato Macron.

Qualche settimana prima della dichiarazione del Presidente della République, 94 senatori francesi avevano inviato una lettera aperta allo stesso Macron. Pubblicata dal quotidiano Le Figaro, la lettera sottolineava il fallimento dell’operazione Barkhane e lo sgomento per l’allontanamento della Francia dall’Africa.

Occorre ricordare che le operazioni militari francesi hanno avuto una durata di ben 10 anni. Tutto ha avuto inizio nel 2013, per fermare l’avanzata di gruppi jihadisti in Mali.

La strategia della Francia nel Sahel era articolata nelle cosiddette “3D”: Difesa (Défense), contro la minaccia terrorista; Diplomazia (Diplomatie), per mobilizzare le varie forze verso la pacificazione dell’area; la terza D si riferisce al “Développement”, allo sviluppo, per sostenere le popolazioni locali anche a livello economico.

Nonostante la strategia delle “3D”, rimane la profonda instabilità politica in Niger e nell’intera regione del Sahel, cui si somma la crisi economica che attanaglia le popolazioni locali. Non a caso, la manifestazione pacifica del 18 settembre 2022 lungo le vie di Niamey è stata caratterizzata anche da slogan contro il caro vita. L’aumento dei prezzi del gas e del petrolio di quei mesi (per effetto dei giochi di potere legati alla guerra in Ucraina) ha avuto ripercussioni sul costo delle derrate alimentari e di altri beni di prima necessità (come è accaduto oltre i confini dell’Africa).

Il peso dell’uranio e del petrolio

Tornando specificamente al Niger, occorre dire che è uno dei Paesi più poveri al mondo. Eppure, è il quarto produttore mondiale di uranio. Circa il 70% dell’elettricità in Francia viene prodotta grazie alle centrali nucleari presenti in varie zone dell’hexagone. Centrali che hanno bisogno anche dell’uranio nigerino per funzionare.

La multinazionale francese Orano (ex Areva) è molto nota in Niger, visto che è presente dal 1971, sfruttando i giacimenti minerari di Arlit, Akokan, Somair e Cominak (poi chiusa con conseguenze devastanti per l’ambiente e per gli ex lavoratori rimasti disoccupati), indispensabili per la produzione di energia nucleare.

Come abbiamo scritto in un Articolo del 2018: La maggior parte dei proventi dell’estrazione dell’uranio va alla multinazionale francese Orano. È importante considerare questo aspetto, poiché la dicotomia fra povertà e ricchezze minerarie del sottosuolo (inclusi i giacimenti petroliferi) fornisce un fertile terreno di coltura per i gruppi jihadisti. Il connubio tra instabilità politico-governativa e indigenza della popolazione fa del Niger un luogo “ideale”, per vari attori interni ed esterni, dove portare avanti i propri interessi.

Tra il 2008 e il 2017, sono state scoperte importanti riserve petrolifere nel sottosuolo nigerino. Una scoperta che ha stimolato la realizzazione del progetto di un oleodotto che collegherà il giacimento d’Agadem in Niger, al porto petrolifero di Sèmè-Kpodji in Benin. I lavori di realizzazione del super-condotto sono realizzati e finanziati da una filiale del gruppo cinese China National Petroleum Company.

Altre risorse minerarie presenti in Niger sono l’oro, lo stagno, il fosfato, il gesso e il carbone.

Oltre il velo del “colpo di Stato” ci sono dinamiche complesse, che valicano i concetti, a volte semplicistici  e di facciata, di democrazia e di sicurezza.

È certo che le ricchezze minerarie del Niger non muteranno il livello di povertà della popolazione, finché il paradigma politico-economico dominante a livello internazionale non cambierà.

Silvia C. Turrin

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