Con il lockdown è il boom delle infibulazioni in decine di Paesi africani, e contemporaneamente delle violenze sessuali e domestiche contro le donne.

Per “garantire” la purezza di una ragazza prima del matrimonio e frenare il suo desiderio sessuale, in molti Paesi africani viene tramandata da secoli una pratica arcaica: la mutilazione genitale femminile.

Il lockdown per la pandemia di Covid 19 ha portato oggi a un aumento esponenziale dei casi di infibulazione, in Africa come in alcuni Paesi mediorientali e dell’Asia centrale.

A denunciarlo sono attiviste per i diritti delle donne e organizzazioni non governative come Plan International, che dalla Somalia al Kenya hanno denunciato l’ampliarsi del fenomeno a cui sono esposte bambine già dai sette anni.

Milioni di madri, consapevoli o meno del danno provocato alle loro figlie, sono costrette a sottomettersi a norme sociali e tradizionali che impongono questa usanza di origini tribali: chi vi si sottrae viene emarginata dalla comunità di appartenenza. Non si tratta solo di una violazione dei diritti delle donne, ma di una pratica dannosa che determina gravi conseguenze per la salute fisica e mentale di chi la subisce.

L’emergenza coronavirus rischia di minare i risultati e gli sforzi compiuti finora per sradicarla dai 32 Stati africani in cui viene ancora praticata con percentuali altissime. In Paesi come la Somalia, che ha il più alto tasso di mutilazioni genitali femminili al mondo, addirittura il 98% delle ragazze ha subito l’escissione delle parti intime, parziale o totale.

“Abbiamo assistito a un enorme aumento di casi nelle ultime settimane”,  ha dichiarato Sadia Allin, capo missione di Plan International a Mogadiscio.

“I nostri operatori hanno appurato, grazie a numerose testimonianze, che “professionisti” delle mutilazioni genitali femminili si sono presentati porta a porta per proporre i propri “servizi”. Siamo molto preoccupati, stiamo cercando di porre un freno a questa indecenza e abbiamo anche chiesto al governo di intervenire per frenare il fenomeno”, spiega Alin che da anni coordina progetti di educazione sessuale e civica nel suo Paese.

“Non avendo l’obbligo di frequentare le lezioni, le ragazze “circoncise” possono restare a casa tutto il tempo necessario per riprendersi”.

Le mutilazioni genitali femminili, che colpiscono in tutto il mondo oltre 200 milioni di bambine e di adolescenti, comportano la rimozione parziale o totale dei genitali esterni. In Somalia viene spesso cucita anche l’apertura vaginale, la pratica più dolorosa e con le conseguenze più gravi dei tre metodi conosciuti per effettuare le mutilazioni.

L’Unfpa, l’agenzia delle Nazioni Unite per le pari opportunità, stima che nell’importante Paese del Corno d’Africa nel 2020 almeno 150mila ragazze siano già state mutilate e altrettante potrebbero subire la stessa sorte entro la fine dell’anno. Il picco degli interventi, anche in altri Paesi del continente africano, si è raggiunto durante il Ramadan, che è uno dei periodi “tradizionali” per compiere l’usanza tribale considerata un vero e proprio rito di passaggio.

Il confinamento a casa è stato foriero, non solo nel continente africano, anche di altre violenze domestiche. Migliaia sono le donne che in situazioni di isolamento hanno subìto abusi, stupri e maltrattamenti di ogni genere.

L’Onu ha rilevato che l’emergenza da coronavirus ha portato anche a un aumento di gravidanze indesiderate (si stima possano arrivare fino a qualche milione entro la fine del 2020) e di matrimoni precoci. Dati sconvolgenti che l’occidente non può, non deve ignorare.

Foto: Wikimedia

Antonella Napoli
su Avvenire

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