Intervista a p. Joseph Tanga-Koti, missionario SMA, originario del Centrafrica, e segretario della Conferenza Episcopale di quel paese. È venuto Roma il passato 2 maggio, per una riunione internazionale. Ci aggiorna sul clima che si vive nel paese, dopo l’attacco di una milizia a una chiesa di Bangui, che ha provocato più di 20 morti, tra cui un prete.


D.: La Repubblica Centrafricana sta attraversando momenti di tensione. Una settimana fa l’attacco a una chiesa cattolica, con morti e feriti. Cosa ha provocato questa interruzione del processo di pace?
P. J. Tanga-Koti: Il processo di pace comporta molteplici elementi: le elezioni, la missione dell’Onu (Minusca), il reinsediamento dell’amministrazione, la riorganizzazione dell’esercito nazionale (le Forze Armate Centrafricane), gli accordi sul cessate il fuoco, il progetto pilota “Disarmo, Smobilitazione, Reinserimento, Rimpatrio”, la creazione della Corte Penale Speciale, il piano nazionale di consolidamento della pace… Con le tensioni attuali, il processo di pace è perturbato, ma non è interrotto. D’altra parte questo processo è irreversibile. Ci sono certo dei nemici della pace, della gente che manovra le corde nell’ombra, e che alimenta la crisi per approfittarne. Ma la popolazione nella sua maggioranza è stanca, e aspira solo alla giustizia e alla pace.
D.: La comunità internazionale è impegnata in Centrafrica, soprattutto per mezzo dell’Onu. Si vedono gli effetti positivi di questo impegno?

P. JTK: Fin dalla sua indipendenza il Centrafrica ha attraversato dei momenti di crisi. L’attuale crisi non ha lasciato indifferente la comunità internazionale. L’Onu è con noi attraverso la “Missione Multidimensionale integrata delle Nazioni Unite per la stabilizzazione del Centrafrica” (Minusca). È un impegno importante, retto da un mandato. Vista la sua configurazione, ha un costo elevato. Gli effetti positivi di questo impegno sono molteplici: la sicurezza della visita del Papa in novembre 2015, la sicurezza dei campi per sfollati interni, una certa sicurezza della città di Bangui, l’interposizione tra i belligeranti, l’agevolazione del dialogo, la concertazione regolare con il Governo.


D.: Qual è il ruolo che la Chiesa cattolica ha scelto di svolgere in questi difficili momenti attuali?
P. JTK: Riconosco che la Repubblica Centrafricana ha appena vissuto degli avvenimenti tragici, soprattutto a Bangui. Sono cosciente della complessità della situazione. Le attese e i bisogni della popolazioni sono enormi. Come Chiesa vorremmo continuare a promuovere la pastorale della riconciliazione e della ricostruzione. Tale pastorale comprende nove aspetti fondamentali dell’identità e dell’azione ecclesiale: missione, fede e vita, dialogo, riconciliazione e coabitazione, ricostruzione, promozione sociale e sviluppo umano.

Noi vogliamo mettere un accento particolare sull’approfondimento della fede cristiana, la giustizia, il dialogo interreligioso, l’ecumenisno e lo sviluppo umano. Ci impegniamo molto per riconquistare i cuori delle persone a Cristo, ricostruire ponti tra le popolazioni diverse, ricreare la fiducia, risvegliare le coscienze alla libertà religiosa, al rispetto della vita, al senso dello stato, del bene comune e dell’interesse generale.
D.: La comunità islamica in Centrafrica è molto composita. Quali sono i principali gruppi e il loro atteggiamento verso il processo di pace?

P. JTK: L’Islam è arrivato in Centrafrica verso la metà del XIX secolo. È stato introdotto nel nord del paese da commercianti musulmani isolati, venuti dai paesi vicini (Ciad, Camerun, Nigeria, Sudan). Approfittando delle vie di comunicazioni terrestri, create tra il 1908 e il 1958 dai coloni francesi, la popolazione musulmana si è massicciamente spostata dal nord verso il sud del paese. L’Islam si è anzitutto propagato per mezzo dei commercianti, poi dei popoli itineranti dediti alla pastorizia, degli immigrati da Ciad, Nigeria, Camerun, Sudan, Mali, Senegal, Yemen, Libano, ma anche dei mercanti di schiavi che non esitavano a utilizzare la forza e le razzie. Oggi i musulmani frequentano moschee diverse. Certe moschee accolgono musulmani originari della stessa nazione o appartenenti alla stessa corrente. Personalmente non conosco le diverse correnti islamiche presenti in Centrafrica, né il loro atteggiamento nei confronti della pace. Ma temo l’esistenza di gruppi radicali, ansiosi di fare dell’Africa la terra dell’Islam.
D.: Ci sono testimonianze di collaborazione islamo-cristiana che il Centrafrica può offrire al mondo?


P. JTK: Il 30 novembre 2015, durante il suo incontro con la comunità musulmana alla Moschea Centrale di Bangui, papa Fancesco disse: “In questi tempi drammatici, i responsabili religiosi cristiani e musulmani hanno voluto innalzarsi al livello delle sfide del momento. Hanno svolto un ruolo importante per riportare l’armonia e la fraternità tra tutti.” Questa ricerca della pace si è fatta nel quadro della “Piattaforma delle Confessioni Religiose del Centrafrica” (PCRC), che raggruppa cristiani e musulmani. La PCRC ha due obiettivi principali: contribuire a migliorare l’ambiente socio-politico e culturale nel paese, e infondere una visione religiosa che richiami la coesione nazionale e la pace.
D.: La SMA è presente in Centrafrica da molto tempo. Quali sono i suoi ambiti di missione oggi?

P. JTK: In Centrafrica la SMA lavora in tre diocesi: Bangui, Berberati e Bossangoa. A Berberati i missionari SMA sono tutti a servizio del popolo dei pigmei, un popolo autoctono spesso oppresso e emarginato. Promuovono lo sviluppo integrale di questo popolo, e gli annunciano la Buona Novella. Lo aiutano nel suo processo di sedentarizzazione, nell’istruzione, nella sanità, nella coltivazione dei campi. A Bangui, nelle due parrocchie affidate alla SMA, i missionari promuovono l’educazione, con un’attenzione particolare ai più sfavoriti.

Gestiscono anche un ambulatorio medico, per assicurare le cure di base alle famiglie povere. Hanno anche creato un’associazione chiamata “Associazione Madre Teresa”, per sostenere le donne, gli orfani e i bambini sieropositivi.