Ribka Sibhatu è nata ad Asmara in Eritrea. È una donna dalle molte anime: scrittrice, saggista, poetessa, mediatrice culturale e ricercatrice, esperta della cultura orale del suo popolo (laureata in Lingue e letterature straniere, ha conseguito un dottorato in Sociologia della comunicazione all’Università degli Studi La Sapienza di Roma).

La sua storia, segnata dalla lacerazione dell’esilio che l’ha costretta ad attraversare l’Etiopia e la Francia, per poi stabilirsi in Italia, a Roma, è diventata un libro dal titolo Aulò. Canto – poesia dall’Eritrea (Sinnos, 1993; introduzione di Tullio De Mauro e testo tigrino a fronte).

Nell’altopiano eritreo, la poesia è un’espressione popolare.

L’aulò è una specie di poesia-canto. Non viene né scritta né ripetuta, ma affidata alla memoria degli ascoltatori in varie occasioni, per esempio nei matrimoni, nei funerali, ecc. Si tramanda tramite il racconto.

Quando uno dice aulò…aulò…aulò, da una parte chiede al pubblico il permesso di esprimersi in rima, dall’altra ne richiama l’attenzione.

In questi giorni vicini alla settimana Santa, riportiamo alcune pagine dedicate ai riti pasquali:

Il Paradiso perduto:

Per gli eritrei cristiani la Pasqua è la più importante festa religiosa. Si festeggia dopo che ognuno ha partecipato alla sofferenza di Gesù Cristo. Infatti si digiuna per cinquanta giorni, durante i quali non si assumono alimenti ricchi come carne, uova, burro, latte, ecc., oltre a non fare colazione. E l’ultima settimana, cioè dalla Domenica delle Palme al giorno di Pasqua, si digiuna fino alle tre di pomeriggio e il Venerdì Santo fino alle sei di sera! In questo giorno neanche i bimbi mangiano.

Quando avevo dieci anni, alla vigilia del Venerdì Santo, promisi alla Madonna che stava presso il letto di mia sorella Mamet, che avrei resistito tutto il giorno. Avevo deciso di digiunare tutto il giorno per scontare un peccato che avevo commesso. Avevo rubato una caramella dal negozio di mia sorella Kebrà. Così la mattina successiva, come facevamo sempre, andai da mio nonno, gli baciai le mani, le ginocchia e i piedi per farmi benedire; preparai il mio tappetino, mi avvolsi intorno alla vita due metri di stoffa, come fanno le donne per resistere meglio alla fame e andai con le mie sorelle in chiesa.

Una volta arrivate al portone della chiesa, levammo le nostre scarpe, scegliemmo un posto all’aperto e mettemmo il tappeto per terra. Ogni volta che arrivava il segnale dal centro della chiesa pregavamo ad alta voce con tutta la gente che stava raccolta nominando i nostri dodici santi. E quando suonava la campanella, rivolti verso la chiesa ci alzavamo e ci prostravamo toccando il suolo con le labbra e con il capo ripetutamente perché ogni prostrazione cancellava il peccato.

Meskél:

Nell’altopiano eritreo la religione predominante è quella copto-ortodossa. Fra le più importanti feste religiosi e popolari vi è Meskél, che significa croce. La croce da noi è oggetto di particolare venerazione; non è solo simbolo dell’opera di redenzione di Gesù Cristo, ma è essa stessa fonte di benedizione e protezione.

La croce è onnipresente nell’animo della gente, sul corpo (sotto forma di tatuaggi, sull’acconciatura dei capelli, sui vestiti, ecc.). Il ventisette settembre di ogni anno si celebra il rientro di un pezzo della croce, ritrovata da parte della regina Elena, sulla quale Gesù Cristo fu crocifisso.

Il libro Aulò. Canto – poesia dall’Eritrea  è poi diventato anche un film-documentario, presentato nel 2012 al Museo nazionale preistorico etnografico Luigi Pigorini di Roma.

A cura di Maria Ludovica Piombino,
Biblioteca africana Borghero