I gesuiti della Georgetown University riconoscono la loro responsabilità nell’aver promosso lo schiavismo, e costituiscono un fondo che risarcirà i discendenti degli schiavi da loro impiegati e trafficati

Un’inchiesta della giornalista Rachel L. Swarns, pubblicata il 17 aprile 2016 sul prestigioso New York Times, fece saltare il coperchio di una questione che ribolliva da anni, e imbarazzava i gesuiti di Washington e degli Stati Uniti: la loro più prestigiosa università, la Georgetown, era sorta nel 18° secolo, e aveva potuto salvarsi dal fallimento nel 1838, per mezzo dello sfruttamento di schiavi afro-americani.

Fu lo sfruttamento del lavoro schiavista nelle piantagioni appartenute ai gesuiti che permise loro di acquistare i terreni e finanziare i lavori di costruzione della loro prestigiosa università.

Nel 1838 la Georgetown University fu sull’orlo del fallimento, ma si salvò attraverso la vendita di 272 schiavi appartenenti ai gesuiti, uomini, donne, bambini, a vari proprietari terrieri della Louisiana, a quel tempo reputati come sfruttatori senza scrupoli della mano d’opera degli schiavi neri.

Patricia Bayonne-Johnson con la foto di un suo trisnonno, ex-schiavo venduto dalla Georgetown University

La giornalista americana, nel suo articolo, affronta la spinosa questione con neutralità, senza lasciarsi coinvolgere dal legittimo sentimento di sdegno e repulsione, guidata dal desiderio di esporre i fatti storici così come sono al lettore, e lasciare a lui il giudizio.

Quel lavoro giornalistico non passò inosservato, e spinse la direzione e il corpo accademico dell’Università a prendere sul serio la propria storia. Ne nacque un gruppo di studio, che rintracciò i nomi e le vite di quegli schiavi che con il loro duro lavoro rendono possibile ancora oggi agli studenti di beneficiare della formazione della Georgetown University.

È di poco tempo fa la notizia che l’Università e la Compagnia di Gesù d’America stanno raccogliendo 100 milioni di dollari e da destinare alla GU272/Descendants Association, un’associazione che riunisce coloro che si riconoscono in qualche modo discendenti di quei 272 schiavi venduti nel 1838.

Quell’indennizzo servirà a creare un fondo che aiuterà i discendenti meno abbienti per i loro bisogni sanitari e di istruzione, finanzierà borse di studio e programmi culturali, che hanno come fine di promuovere la giustizia razziale e combattere quelle conseguenze dello schiavismo ancora evidenti oggi nella società americana.

Insieme ad altre università gesuitiche americane partirà anche il Progetto “Schiavitù, Storia, Memoria e Riconciliazione”. Esso ascolterà la voce degli ex-schiavi, registrata nei documenti dell’epoca, e quella dei loro discendenti di oggi, al fine di conoscere la verità, di conservare la memoria, una memoria oggettiva, liberata dal sentimento, una memoria che sia per sempre un monito per il futuro. Per raggiungere alla fine l’obiettivo di costruire una società in cui per sempre sia bandito il razzismo e ogni forma di disuguaglianza e discriminazione.

P. Timothy P. Kesicki, superiore dei gesuiti nordamericani

“Per noi gesuiti è l’opportunità di avviare un processo molto serio di verità”, ha detto padre Timothy P. Kesicki, il presidente della Conferenza dei gesuiti nordamericani. “La nostra storia vergognosa di padroni di schiavi è stata rimossa dagli scaffali e non ci tornerà mai più”.

Speriamo che questo notevole segnale che viene dalla Georgetown University stimoli azioni simili in altre regioni del mondo, come l’America Latina, l’Africa o certi paesi asiatici, nei quali la Chiesa Cattolica con i suoi membri, clero e laici, si è macchiata della colpa dello schiavismo.

Alcuni acquisti recenti della nostra Biblioteca Africana che trattano della questione dello schiavismo in America e della tratta atlantica:

  • William G. Thomas, A Question of Freedom: The Families Who Challenged Slavery from the Nation’s Founding to the Civil War, Yale University Press, 2020, 439 pagine.

Con un certosino lavoro di archivio, frugando tra i polverosi faldoni dei tribunali del Sud degli Stati Uniti, riprendendo in mano cause legali che opponevano famiglie di schiavi liberati ai loro ex-padroni, l’Autore racconta la storia intricata e intensamente umana di alcune famiglie di schiavi neri (Butlers, Queens, Mahoneys, e altri), dei loro avvocati (tra loro un giovane Francis Scott Key), e dei proprietari di schiavi che hanno combattuto per difendere la schiavitù, a partire dai religiosi gesuiti, che all’epoca possedevano alcune delle più grandi piantagioni del paese, e grazie ad esse fondarono la Georgetown University. Questo libro ci interpella sulla necessità di fare i conti con il problema morale della schiavitù e della sua eredità nei giorni nostri.

  • Katharine Gerbner, Christian Slavery: Conversion and Race in the Protestant Atlantic World, University of Pennsylvania Press, 2019,‎ 280 pagine.

 I missionari protestanti arrivarono nel 17° secolo nelle colonie americane che prosperavano grazie al lavoro schiavistico delle piantagioni, con l’intenzione di convertire al cristianesimo gli schiavi africani. Ma erano presi dallo sgomento costatando che i proprietari bianchi si opponevano vigorosamente. Gli schiavisti accusavano i missionari di provocare ribellioni di schiavi. In risposta, i missionari Quaccheri, Anglicani e Moraviani, proponevano loro una teoria della “schiavitù cristiana”, secondo la quale uno schiavo convertito diventerebbe più laborioso e fedele. Gli schiavi convertiti però contribuirono a far nascere una nuova pratica del protestantesimo, nel quale la conversione religiosa si accompagnava all’alfabetizzazione e alla libertà.

  • Daniel B. Domingues da Silva, The Atlantic Slave Trade: from West Central Africa 1780-1867, Cambridge University Press, 2019, 248 pagine.

Questo libro ben documentato, basato su una solida analisi di dati statistici, è un tassello importante per ricostruire la storia poco conosciuta degli ultimi decenni del commercio di schiavi dall’Angola all’America. La ricerca dell’autore non lascia dubbio che la principale fonte di schiavi durante gli ultimi decenni del 18° secolo erano le comunità più vicine alla costa di Luanda e al fiume Kwanza, e non quelle nel lontano interno. Domingues da Silva esplora i collegamenti storici con il più ampio mondo atlantico. Volume arricchito da ottime cartine, grafici e tabelle di dati.

P. Marco Prada

Foto: wamu.org (Nick Otto/The Washington Post/Getty Images); Georgetown University; Wikipedia