La Repubblica Centrafricana, situata nel cuore dell’Africa, è un Paese potenzialmente ricco, con immense foreste, bellezze naturali e risorse minerarie importanti. Purtroppo, da anni è sprofondato in una profonda crisi politica con due schieramenti miliziani, Seleka e Anti-balaka, che contendono il dominio del territorio. Si intersecano anche interessi politici ed economici internazionali, che rendono più faticosi e complicati i percorsi di riconciliazione e di pace.

La Chiesa cattolica è in prima linea nella costruzione della pace, favorendo l’incontro tra musulmani e cristiani, promuovendo il dialogo tra leader militari e politici, e raccogliendo il grido di speranza della popolazione che è esausta dopo anni di violenza e insicurezza. 

Nello scorso novembre, la Comunità SMA di Feriole ha ricevuto la gradita visita di un nostro confratello SMA: Monsignor Nestor-Désiré Nongo-Aziagbia, vescovo di Bossangoa e presidente della Conferenza episcopale del Centrafrica.

 

Monsignore, ci presenti brevemente la sua Diocesi

«La Diocesi di Bossangua copre un vasto territorio di 78.240 chilometri quadrati al nord est della Repubblica Centrafricana, alla frontiera con il Ciad, con una popolazione di circa 700.000 abitanti. Il 30% sono cattolici.

Le parrocchie sono solo 15, ma molto estese: ognuna conta circa 2.700 chilometri quadrati. I sacerdoti sono 42, in maggioranza locali; gli altri provenienti da diversi paesi: dal Congo, dal Burundi, dalla Nigeria…

Abbiamo quattro padri SMA, due Cappuccini e due Missionari nigeriani di San Paolo».

Com’è la situazione sociopolitica?

«Nel 2002, quando Bozizé ha cercato di conquistare il potere, è iniziata la guerra. Ma è stato respinto in Ciad. Più tardi è tornato, passando proprio per la nostra Diocesi, saccheggiando tutte le parrocchie e le infrastrutture diocesane.

La guerra ha causato numerosi morti e tanti disastri. Anche alcuni sacerdoti sono stati uccisi.

Quando io sono stato nominato vescovo, nel 2012, la Diocesi era in gran parte rovinata e aveva bisogno di essere ricostruita. Nel 2013, una parrocchia, tenuta dai Cappuccini, è stata completamente saccheggiata e i poveri frati se ne sono andati. Lì c’era il centro Catechistico diocesano: oggi, quando visiti questa località, sei impressionato dalla totale rovina».

Tutto è andato distrutto?

«La sola struttura che è rimasta in piedi è la cappella. È stata salvata dalle api. Quando i ribelli sono arrivati, dopo aver rubato tutto quello che potevano, sono saliti sul tetto per portar via anche le lamiere… ma sono stati attaccati da un nido di api.

I due ribelli che stavano in alto sono caduti a terra morti; gli altri hanno capito il messaggio e sono scappati. Così si è salvata la cappella… che però rimane senza tetto. I fedeli ora sono pronti a lavorare per la ristrutturazione, ma i mezzi a disposizione sono pochi».

Non ha mai avuto paura?

«Il 16 aprile del 2014 sono stato rapito, insieme a tre sacerdoti, da alcuni ribelli del Seleka, una coalizione etnico-religiosa musulmana formata nell’agosto del 2012. Grazie a Dio, siamo stati liberati pochi giorni dopo. Ad oggi, si soffre insicurezza e povertà. Abbiamo pagato un prezzo pesante per la crisi che ha investito tutto il paese e i cui effetti continuano a farsi sentire anche sulle strutture e sull’organizzazione delle sue comunità ecclesiali. Tutto questo ha portato la nostra Chiesa a fare profonda esperienza della fragilità evangelica e della povertà».

Avete contatti con le altre religioni?

«C’è un buon rapporto con le altre regioni. In particolare, con i musulmani. Durante la guerra molti di loro erano partiti. Ora stanno tornando un po’ alla volta. Abbiamo creato una “Piattaforma delle religioni” con la partecipazione dei cattolici, protestanti e musulmani: lavoriamo assieme e cerchiamo di far fronte alle difficoltà che incontriamo. Anche se questa crisi può far pensare ad un conflitto tra musulmani e cristiana, è prima di tutto una lotta fratricida tra centrafricani, sullo sfondo della disintegrazione dello Stato».

C’è speranza per il futuro della Chiesa in Centrafrica?

«Al seminario minore di Bossangua, ogni anno accogliamo 120 giovani per la formazione. Ma si potrebbe averne molti altri ancora. Purtroppo, manca il necessario per alloggiare tutti quelli che desiderano incamminarsi verso il sacerdozio: mancano i letti, gli armadi, il materiale per la cucina… I giovani ci sono e sono pronti, scarseggiano i mezzi per accompagnarli.

Però la speranza non manca mai! E lo sappiamo bene: essere cristiani significa continuare a tenere accesa la lampada della speranza, dell’amore, del perdono e della riconciliazione».

Grazie Monsignor Nestor, buona missione.



Questa intervista è pubblicata anche sul n. 170 della rivista SMA di animazione missionaria Il Campo

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