Nel 2025, si celebra il centenario della nascita di Frantz Fanon (Fort-de-France, 20 luglio 1925 – Bethesda, 6 dicembre 1961), psichiatra, saggista, filosofo e molto altro.
Inquadrarlo in specifici ambiti è, però, a nostro avviso riduttivo, come abbiamo cercato di far emergere in un precedente Articolo, nel quale abbiamo sottolineato come Fanon sia stato un pensatore e intellettuale sui generis, capace di unire due mondi apparentemente distanti: quello della psichiatria con quello dell’anticolonialismo.
A lui si devono importanti opere – espressioni del movimento un tempo chiamato “terzomondista” – come Pelle Nera, Maschere Bianche del 1952 e I dannati della Terra del 1961. Testi che evidenziano non solo gli effetti culturali, politici, sociali, ma anche psicologici della dominazione coloniale sui popoli oppressi.
La dimensione psicologica è ciò che infatti caratterizzata il percorso di Fanon, che non fu semplicemente un intellettuale terzomondista, bensì uno psichiatra impegnato. Questo aspetto lo mette ben in luce il film del regista Abdenour Zahzah dedicato al periodo in cui il dottor Frantz Fanon lavorò all’ospedale di Blida-Joinville, in quell’Algeria all’epoca occupata dai francesi.
Zahzah, classe 1973, nato nell’Algeria indipendente, ha ricevuto il premio della giuria al Fespaco 2025 per questo film biografico dal titolo lunghissimo ed evocativo: “Chroniques fidèles survenues au siècle dernier à l’hôpital psychiatrique Blida-Joinville, au temps où le Docteur Frantz Fanon était chef de la cinquième division entre 1953 et 1956” (Cronache fedeli avvenute nel secolo scorso presso l’ospedale psichiatrico Blida-Joinville, all’epoca in cui il dottor Frantz Fanon era a capo della quinta divisione tra il 1953 e il 1956).
Zahzah, in questo lavoro, si concentra su un periodo breve della vita di Fanon – dal 1953 al 1956 – eppure denso di avvenimenti, incontri, dinamiche umane e politiche, che forniranno poi l’humus su cui lo psichiatra martinicano costruirà il suo libro cult, già citato, “I dannati della terra”, e forgerà quelle idee che in seguito lo condurranno a fianco del movimento indipendentista algerino.
Attraverso la vita di Fanon (interpretato dall’attore Alexandre Desane), il regista Zahzah ci mostra al contempo l’alienazione psicologica subita dagli algerini all’epoca del colonialismo francese. Un’alienazione creatasi per la profonda dicotomia tra il mondo dei coloni e il mondo dei colonizzati. “Un mondo a scomparti”, come lo definì Fanon.
Quando si riflette sugli sforzi che sono stati impiegati per attuare l’alienazione culturale così caratteristica dell’epoca coloniale, si capisce che nulla è stato fatto a caso e che il risultato complessivo perseguito dalla dominazione coloniale era di convincere gli indigeni che il colonialismo doveva strapparli alla notte. Il risultato coscientemente ricercato dal colonialismo, era di mettere in testa agli indigeni che la partenza del colono avrebbe significato per loro ritorno alla barbarie.
Sul piano dell’inconscio, il colonialismo non cercava di essere percepito dall’indigeno come una madre dolce e benevola che protegge il figlio da un ambiente ostile, piuttosto assumeva la forma di una madre che, senza tregua, impedisce a un bambino fondamentalmente perverso di compiere il suo suicidio, di dar libero sfogo ai suoi istinti malefici. La madre coloniale difende il figlio contro se stesso, contro il suo io, contro la sua fisiologia, la sua biologia, la sua sventura ontologica.
Osservando e vivendo in prima persona le contraddizioni e i conflitti di una duplice realtà, proprio in questo periodo in cui lavora all’ospedale di psichiatrico Blida-Joinville, Fanon si unisce al Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) che lotta per l’indipendenza dell’Algeria.
Psichiatria e politica vanno a braccetto: la mente umana è fragile e l’ambiente in cui si nasce e si vive influisce non soltanto sull’esistenza concreta, ma anche sui pensieri, sui disturbi, sui disagi. Per questo Zahzah, nel suo film, ci parla della psicoterapia istituzionale, nella quale hanno un posto centrale le pratiche di disalienazione, nonché le relazioni umane e di cura tra infermieri, dottori e pazienti.
Il film di Zahzah mette in evidenza il forte legame che si è sviluppato tra il martinicano Fanon e l’Algeria. Ed è proprio in terra algerina che l’intellettuale anticolonialista è stato inumato. Morì a soli 36 anni, per una leucemia, pochi mesi prima dell’indipendenza dell’Algeria dalla Francia.
Il suo lavoro come psichiatra e come anticolonialista è stato talmente importante, che ben tre ospedali algerini portano il suo nome: l’ospedale psichiatrico di Blida, dove ha lavorato, uno degli ospedali di Béjaïa e un ospedale di Annaba.
Silvia C. Turrin
“La città del colono è una città di cemento, tutta di pietra e di ferro. È una città illuminata, asfaltata, in cui i secchi della spazzatura traboccano sempre di avanzi sconosciuti, mai visti, nemmeno sognati. I piedi del colono non si scorgono mai, tranne forse in mare, ma non si è mai abbastanza vicini. Piedi protetti da calzature robuste mentre le strade della loro città sono linde, lisce, senza buche, senza ciottoli. La città del colono è una città ben pasciuta, pigra, il suo ventre è pieno di cose buone in permanenza. La città del colono è una città di bianchi, di stranieri. La città del colonizzato, o almeno la città indigena, il quartiere negro, la medina, la riserva, è un luogo malfamato, popolato di uomini malfamati. Vi si nasce in qualunque posto, in qualunque modo. Vi si muore in qualunque posto, di qualunque cosa. È un mondo senza interstizi, gli uomini ci stanno ammonticchiati, le capanne ammonticchiate. La città del colonizzato è una città affamata, affamata di pane, di carne, di scarpe, di carbone, di luce. La città del colonizzato è una città accovacciata, una città in ginocchio, una città a testa in giù”. Frantz Fanon
“La città del colono è una città di cemento, tutta di pietra e di ferro. È una città illuminata, asfaltata, in cui i secchi della spazzatura traboccano sempre di avanzi sconosciuti, mai visti, nemmeno sognati. I piedi del colono non si scorgono mai, tranne forse in mare, ma non si è mai abbastanza vicini. Piedi protetti da calzature robuste mentre le strade della loro città sono linde, lisce, senza buche, senza ciottoli. La città del colono è una città ben pasciuta, pigra, il suo ventre è pieno di cose buone in permanenza. La città del colono è una città di bianchi, di stranieri. La città del colonizzato, o almeno la città indigena, il quartiere negro, la medina, la riserva, è un luogo malfamato, popolato di uomini malfamati. Vi si nasce in qualunque posto, in qualunque modo. Vi si muore in qualunque posto, di qualunque cosa. È un mondo senza interstizi, gli uomini ci stanno ammonticchiati, le capanne ammonticchiate. La città del colonizzato è una città affamata, affamata di pane, di carne, di scarpe, di carbone, di luce. La città del colonizzato è una città accovacciata, una città in ginocchio, una città a testa in giù”. Frantz Fanon